La solitudine

Articolo di Maria Maddalena Ferrari e Michele Perillo

 
 

I membri delle specie animali possono vivere solitari (magari eccetto che per il breve periodo della riproduzione, come gli orsi o le tigri) oppure aggregarsi in comunità più o meno numerose e più o meno organizzate. Gli animali solitari hanno meno concorrenti tra i conspecifici, ma le specie sociali godono di altri vantaggi come la protezione reciproca e una maggior efficacia predatoria, sviluppano inoltre una maggiore intelligenza necessaria per gestire la complessità dei rapporti sociali (coordinamento/cooperazione, sistema di riconoscimento individuale, linguaggi). In cambio, perdono però indipendenza e autosufficienza e sviluppano un senso di appartenenza che diventa bisogno della vicinanza e delle interazioni con i membri del branco e i consimili. Per questi animali, la solitudine diventa una deprivazione di bisogni viscerali che produce stress intensi e spesso gravi danni psichici e fisiologici anche permanenti. Allevare in isolamento dai consimili un parrochetto ondulato, un alpaca, una pecora, un lupo, un cigno (e perfino una formica) tanto per citare qualcuno degli animali gregari, significa infliggere loro una vera tortura e provocare malattie e disfunzioni comportamentali.

L’uomo ha necessità analoghe e soffre la solitudine. Nei paesi dove non si pratica la pena di morte, la punizione estrema per i reati più gravi è l’isolamento in carcere. Ma anche nella vita familiare, il reprobo viene confinato per castigo in camera sua o in qualche altro locale chiuso, senza televisione, ovviamente. Ma non all’aperto, non sarebbe altrettanto penoso: la mancanza di contatto sociale è percepita più dolorosamente in ambiente chiuso, mente l’aria aperta – che offre stimoli diversificati come il mutare del paesaggio, le presenze anche lontane dei propri simili o di altri animali, per non parlare della presenza di uno o più animali domestici – diluisce l’effetto della solitudine e la percezione oppressiva dei confini. La solitudine pesa di più a certe fasce d’età, sotto i 30 anni (quando sono più vivaci le pulsioni sessuali e alla competizione, che restano senza obiettivo) e sopra i 60 anni (associata talora a depressione e mancanza di occupazioni utili e impegnative): i giovani e gli anziani tendono di più a restare in contatto con gli altri e a fare amicizia, per una sorta di minor autosufficienza emotiva da cui nasce un bisogno di contatti, quello che John Cacioppo, dell’Università di Chicago, chiama reaffiliation motive, la  tendenza a rientrare nel gruppo. La solitudine aumenta il rischio di contrarre depressione e problemi cardiaci e riduce l’aspettativa di vita, (anche più dell’obesità, secondo una ricerca della Brigham Young University). Nelle società industriali contemporanee la sua diffusione aumenta col calare dei matrimoni, dei figli, dei partecipanti al volontariato e alle pratiche religiose, con effetti che si aggravano nei periodi di particolare riduzione dei rapporti sociali, per esempio come sta accadendo a causa della pandemia da Covid19. Gli antidoti ovvi sono la partecipazione ad attività collettive, la moltiplicazione dei contatti reali o virtuali (telefono, computer). Oltre all’aiuto dello psicoterapeuta, sarà sempre benefica – come s’è accennato – l’esposizione all’aria aperta e al sole e la frequentazione dell’ambiente naturale, che offrono un ancestrale, consolatorio senso di libertà.
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