Articolo di Maria Maddalena Ferrari e Michele Perillo
Tutte le culture umane hanno adottato e praticano qualche forma di commiato ai consimili morti e varie forme di culto tendono a rinviare e prolungare l’addio, nella convinzione di mantenere qualche forma di contatto con il defunto o addirittura nella speranza di poterlo ritrovare vivo in un’altra dimensione.
Anche molti animali, come i delfini e le scimmie, ma non solo loro (“anche gli elefanti piangono”, scrive l’etologo Wan de Waals), mantengono il contatto col conspecifico ferito, malato o morto, difendendolo dai predatori, tentando di nutrirlo e stimolandolo ad una, anche quando impossibile, ripresa. Anche per loro, si tratta di comportamenti consolidati con l’evoluzione, grazie al loro valore protettivo, poiché qualche individuo svantaggiato può riuscire ugualmente a salvarsi con l’aiuto dei congiunti e i predatori vengono dissuasi dall’uso di predare queste scomode specie sociali.
Ogni cultura umana ha adottato diversi riti che servono a rinviare il distacco definitivo dal defunto, come veglie, rosari, funerali, commemorazioni e monumenti, conservazione di oggetti ricordo e reliquie, ecc. nell’intento di attenuare l’impatto della perdita e accompagnare l’elaborazione graduale del dolore.
La pandemia infettiva di Covid 19 ha impedito molte di queste misure: i parenti hanno dovuto salutare i malati senza poter prevedere che sarebbe stata l’ultima volta, non hanno potuto visitare i malati segregati negli ospedali e talora neppure parlare con loro, né assistere alla loro morte, né partecipare al funerale e nemmeno recuperare – se non dopo qualche tempo – gli oggetti che il defunto aveva con sé, spesso carichi di valore affettivo. Anche la restituzione degli effetti personali ai famigliari diventa allora un momento che richiede l’assistenza dello psicologo, per aiutare ad affrontare il dolore e talora anche la frustrazione e la rabbia per le vere o presunte disfunzioni.
Questa esclusione dai riti consolatori ha talmente aggravato gli effetti della separazione che alcune avvedute comunità civili e religiose, molti enti e associazioni del terzo settore e pubbliche amministrazioni hanno ritenuto di istituire strumenti di sostegno dei congiunti (avvalendosi di psicologi e sacerdoti), e di indire commemorazioni individuali e collettive e celebrazioni religiose, ma perfino concerti (1200 musicisti di diversi paesi hanno eseguito in rete da casa la canzone “Una musica può fare” di Max Gazzè) e spettacoli di vario tipo. Queste iniziative sono state rivolte non solo ai famigliari dei defunti, ma anche al personale sanitario, sottoposto a intensi periodi di fatica e di misconosciuta tensione emotiva e che a volte fatica a superarne i postumi, con sintomi spesso rivelatori di stress post traumatico. Anche i bambini delle famiglie che hanno sofferto lutti o hanno subito durante la quarantena isolamento, solitudine, forzata assenza di genitori parenti e amici, e lo stravolgimento dei ritmi quotidiani, manifestano spesso segni di acuta sofferenza che richiedono il delicato intervento del terapeuta.
Un lavoro di psicoterapia o di supporto psicologico permetterebbe, in prima battuta di far emergere le emozioni collegate ai suddetti momenti di dolore, dato che spesso per motivi profondi tendiamo a normalizzare per andare avanti per esempio; in seconda battuta di affrontarle, gestirle e infine posizionarle nella giusta dimensione del nostro universo emotivo dando, per quello che è possibile, un senso per quanto doloroso a tutto quello che è stato vissuto.
Rabbia eccessiva, paura immotivata, ansia che coglie in momenti di apparente calma, sono spie che spesso indicano che qualche evento, periodo, ricordo non è stato elaborato nel modo corretto.
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